mi fanno schifo le cose belle

agoniaBN

Un racconto breve a tema conflitto.

Ho scritto questo racconto per il corso di scrittura creativa tenuto da Emidio Clementi, nel corso specialistico di Linguaggi del Fumetto dell’Accademia di Belle Arti di Bologna.
I fatti sono totalmente inventati, non fatevi idee strane lo giuro. Le illustrazioni sempre mie. Buona lettura, son graditi i commenti. 


Eravamo strafatti di coca ma questo adesso non conta.

Ci siamo dati appuntamento in un hotel, di quelli che si capisce che son stati belli ed eleganti, quaranta anni prima però. Adesso era come stare nella carcassa di un vecchio elefante. I mobili foderati di velluto verde tenevano intrappolati gli umori di chi ci era passato e sono sicura che sia morto qualcuno su uno di quei divani anni ’80, incredibilmente gonfi, color ruggine.

Tutto quel marrone, il legno, la moquette, le luci basse, mi davano sensazioni contrastanti. Un po’ sembravano presenze, vecchi sbircioni venuti lì a giudicare; un po’ invece ho pensato che se avessi provato ad uscire avrei scoperto, aprendo la porta, che tutto il mondo fuori era svanito e dovessi restare lì per sempre, sola con lui e col fantasma del morto sul divano.

Non male, per un film di Larry Clark.

Non ci parlavamo da tre mesi e ora continuavamo a spostarci da un angolo all’altro della stanza. Per lo più in silenzio, ma a volte uno dei due tentava di dire qualcosa che veniva fuori stridula e insensata, con le nostre voci impastate dalla droga.

L’idea di portarla era stata mia. Ho pensato che ci avrebbe aiutato a vivere il confronto in maniera più diretta e sincera, violenta, se se ne fosse presentato il bisogno. Lui all’inizio si era arrabbiato, mi ha detto che eravamo lì per chiarirci dopo aver mandato la nostra relazione a puttane per colpa dei nostri eccessi e dei nostri cambi di umore, avevamo perso tutto per la droga e adesso io arrivavo lì pensando di risolvere, imbottita di coca come una di quelle sfere di Natale con dentro la neve.

Questo suo paragone mi aveva fatta ridere così forte che la gomma da masticare che avevo in bocca era finita sulla sua scarpa, allora ha riso anche lui, l’ha staccata dalla punta della Clarks e ha provato a rificcarmela in bocca. Così abbiamo cominciato un po’ a picchiarci e nella lotta l’ho morso sul polso talmente forte da fargli uscire il sangue, allora lui, tenendo la gomma tra le punte dell’indice e del pollice si era avvicinato alla finestra e guardandomi, improvvisamente serio, con un rivolo di sangue chiaro misto a saliva che gli scendeva dalla manica del cardigan troppo grande, mi fa :“Ecco, questa sei tu, masticata e sporca, finita”. E la butta di sotto.

Allora io gli rispondo “E tu cosa saresti?”.  Lui senza fiatare ha preso la scarpa che era andata a finire su un tavolino basso di cristallo con i piedi in finta pietra leccese, è tornato alla finestra e ha buttato giù anche quella. Poi ha accettato la coca.

Dopo siamo rimasti zitti a lungo, io tutta rannicchiata nell’angolo della poltrona gonfia, lui seduto a terra con la schiena poggiata sul lungo mobile di legno e velluto, le gambe piegate, la mano destra che faceva la spola grattando furiosamente i capelli, poi il naso, poi di nuovo i capelli.

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Ovviamente nessuno dei due stava pensando a cosa dire, a come cominciare il discorso la cui necessità ci aveva portato fin lì. Entrambi, invece, stavamo pensando che servisse della musica, qualcosa che smuovesse quell’aria polverosa. La polvere la vedevo fluttuare nel fascio di luce proiettato dalla lampada a muro a forma di conchiglia. Mi sono persa a pensare che fosse quella polverina che serve a fare la gelatina per dolci e che avrebbe potuto iniziare a sciogliersi da un momento all’altro, imprigionandoci per sempre in un diorama giallastro troppo brutto per essere ammirato. Ho riso un po’ al pensiero della gelatina.

Lui non mi ha chiesto perché, si è alzato di scatto e ha cominciato a saltare di qua e di là, finchè finalmente ha tirato fuori il suo smartphone cinese e mi ha chiesto “Musica, ti va?”.  E certo che mi andava, ma cosa?  Serviva una canzone specifica, una che non parlasse d’amore però, Dio ce ne scampi in un momento del genere.

Ho cercato di passare in rassegna il mio repertorio di canzoni per non pensare, escludendo quelle troppo allegre o troppo tristi. Il mio cervello in surriscaldamento ha tirato fuori dall’hard disk un jolly, per cui ho detto “Metti Start Choppin’ dei Dinosaur Jr”, che è l’unica canzone loro che non mi è mai piaciuta. E’ importante che non ti piaccia la canzone che metti in un momento che ricorderai per sempre come frustrante. Le canzoni sono spugne, se si impregnano di marcio poi devi buttarle via.

Allora lui mi fa “Non ti è mai piaciuta quella canzone, lo stai facendo di nuovo vero? Stai cercando di cancellare questo momento”.

Credo che la rabbia gli abbia fatto salire la botta perché ha cominciato a fare dei versi come quelli dei cervi giovani quando fanno a cornate con i vecchi per decidere chi vince l’accoppiamento del giorno, l’avevo visto in un documentario in tv a casa di mio padre.

Poi ha preso la lampada alta che era in un angolo e l’ha sollevata e continuava ad agitarla, per cui c’era un fascio di luce che si muoveva per la stanza e io sono saltata in piedi urlandogli di smetterla che mi stava facendo impazzire. Mi tenevo la testa come fossi in preda a delle convulsioni, stupidamente drammatica, esagerando. Penso che se qualcuno ci avesse guardati senza il sonoro avrebbe pensato che stessimo ballando. Finché non l’ha sollevata così forte da dare uno strappo alla presa e tutto è diventato più buio e teatrale.

Ci ho messo un paio di secondi a capire che me l’avrebbe lanciata addosso. Così ho saltato di lato mentre quella si infrangeva nel punto esatto in cui orbitava ancora la mia ombra. In preda all’isteria ho cominciato ad urlare più forte di prima

“Cosa cazzo pensavi di fare eh? Pensavi di colpirmi, davvero? O miravi alla mia ombra? Non te la togli da dosso, dillo, dillo una buona volta che senza di me non ci sai stare!”.

E lui fa “Ma io te l’ho sempre detto! Te l’ho sempre detto”.

Ma non avevo capito che quella era una resa, l’ultimo atto di un animo esausto che non sapeva più come fare a tenersi la sua fiamma vicina. Non avevo capito e già correvo nella stanza accanto a prendere qualcosa di altrettanto pretenzioso da scagliargli contro. E l’ho fatto davvero. Un vaso in vetro soffiato con tutti i contorni dipinti di blu e viola. Son tornata di là con la carica di un mostro e l’ho lanciato più forte che potevo. Ma io non avevo capito. Non avevo capito che si era seduto stremato ad aspettarmi e non avrebbe fatto in tempo a spostarsi. Il tonfo è stato così forte che ho sentito io stessa un dolore sordo partirmi dai denti e finire, vibrando, nelle orecchie. La poltrona ha cominciato lentamente a diventare rossa. La stanza girava alla velocità della luce. Mi sono fiondata verso di lui implorando perdono, poi mi son fermata a guardarlo mentre si portava una mano alla tempia tumefatta.

Era così magro, con quel maglione enorme e i jeans squarciati, una scarpa sola, i capelli biondi adesso tinti a chiazze di rosso. Non sono riuscita a trattenere un sorriso mentre gli dicevo “Sembri proprio Kurt Cobain”.

Ha alzato su di me uno sguardo che portava tutta la frustrazione del cervo sconfitto e mi fa “Vai via, vattene. E accendi tutte le luci mentre esci, non voglio più vedere una singola parte di te strisciare scura nel mondo intorno”.

Indietreggiando ho preso la mia borsa e l’astuccio con la droga. Ho acceso una sola luce, che sapevo avrebbe proiettato la mia figura su tutto il corridoio, e ho ondeggiato il culo come solo una povera stronza può fare.

Appena varcata la porta ho cominciato a piangere. Il morto sulla poltrona adesso c’era davvero o quasi. Il mondo fuori non era svanito però, purtroppo.

Ho lasciato dei soldi alla reception per il vaso rotto e quando sono uscita fuori quella scarpa sul marciapiede era davvero lui.

Ho ritrovato poco distante la mia chewing-gum, l’ho raccolta e l’ho messa in bocca, masticando come solo una povera stronza avrebbe potuto fare.

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RAPTUS

Su Retina la mia nuova storia breve: RAPTUS.

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Leggi la storia per intero qui: https://www.retinacomics.org/raptus/

E la mia intervista fotografica, qui: https://www.retinacomics.org/intervista-fotografica-•-joe-1/

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